Emigrare per amore negli anni Settanta

Emigrare per amore negli anni Settanta

“Rimpatriati”: la storia di Anna Maria

L’importante è stare insieme, il resto non conta

Anna Maria

Anna Maria è una donna dallo sguardo dolce.

Ha un portamento elegante, oserei dire regale.

I suoi occhi comunicano la serenità di chi ne ha vissute tante e ha sempre trovato il coraggio di andare avanti, nonostante l’asprezza che a volte la vita riserva.

Mi accoglie nella sua cucina e mi offre un caffè. Rimane stupita quando le dico che non metto lo zucchero, ma è un pensiero che dura pochi istanti.

Quando inizia a parlare è un fiume in piena.

Anna Maria vorresti raccontarmi chi sei?

Sono una donna che ha appena compiuto 75 anni. Sono una nonna, una mamma, una moglie, una casalinga che per tutta la vita si è dedicata ai propri cari, conducendo un’esistenza fatta di alti e bassi. Mandare avanti una famiglia composta da cinque persone non è sempre stato facile, tuttavia sono sempre riuscita a superare le difficoltà della vita con dolore sì – perché ci sono stati degli eventi estremamente dolorosi – ma anche con tanto amore. Ho imparato tantissimo proprio da quegli eventi negativi e oggi posso dire di essere una donna risolta, appagata. Sono convinta che con un po’ di buona volontà e testardaggine si va avanti. Questa sono io!

Quando e per quale motivo sei andata via dalla tua città di origine?

Emigrare non era nei miei programmi. Il mio fidanzatino di allora, nonché attuale marito da 53 anni, doveva andare via. I suoi genitori avevano deciso di partire per gli Stati Uniti. A casa loro era rimasto solo mio marito Mauro, che all’epoca aveva 19 anni (gli altri figli avevano tutti una propria famiglia). Era “normale” che anche lui essendo giovane dovesse seguire i genitori. Lui partì a gennaio del 1970 col padre e non sapevamo quando ci saremmo rivisti.

Nel periodo passato distanti avevamo una relazione epistolare, ci scrivevamo delle lettere e, al massimo, avevamo degli appuntamenti telefonici. Ad esempio nella lettera Mauro scriveva “Domenica ti chiamo alle 18. Fatti trovare a casa di mia madre”. Mia suocera non li aveva ancora raggiunti negli Usa e a casa mia non avevamo il telefono!

Non avevamo molta privacy in queste chiamate. Non mi sentivo così libera di esprimere le mie emozioni. C’era del riserbo.

Negli Stati Uniti Mauro ha trovato subito lavoro, ma decise che massimo ogni sei mesi sarebbe dovuto tornare in Italia per rivedere me. Il padre gli disse che facendo così avrebbe speso tutti i soldi guadagnati in aerei e gli suggerì, a quel punto, di sposarmi. Fu così che Mauro mi chiese in una lettera di sposarci.

Io, innamorata com’ero, non ci pensai due volte a lasciare la mia vita di ragazza. Mia madre e mio padre rimasero a dir poco basiti.

Non fu facile poi organizzare il matrimonio a distanza e in soli tre mesi. Noi ci siamo sposati il primo luglio del 1970. Insomma successe tutto in pochissimo tempo, con grande dispiacere dei miei genitori che mai avrebbero pensato di vedermi partire per l’America.

Com’è andata poi?

Subito dopo il matrimonio sono rimasta incinta. Fu proprio una cosa immediata. Iniziai ad avere le nausee, quindi Mauro partì per primo e io rimasi ancora due mesi nella mia città di origine. Quando poi stetti meglio lo raggiunsi, affrontando da sola il viaggio in aereo senza avere alcuna esperienza. Mi dissi: “Me la caverò”. Presi il primo aereo che faceva scalo a Roma Fiumicino, dove mi sentii sperduta come non mai, e poi presi un altro aereo per New York. Arrivata lì al JFK mi ritrovai spaventata. C’era una marea di gente. Per la prima volta vedevo scorrere le valigie e la gente ammassata cercava la propria. Io pensavo: “Non troverò mai la mia valigia”. Ma la cosa che mi spaventava di più era che non vedevo volti conosciuti. Non conoscevo neanche l’inglese.

Ero demotivata, quando così per puro caso alzai il capo e mi resi conto che, al primo piano, al di là di una grandissima vetrata, c’erano i miei cari. Scorsi Mauro e sua sorella, mia cognata, che si sbracciavano per attirare la mia attenzione. Mauro aveva in mano un bellissimo mazzo di fiori bianchi. Era un uomo molto romantico. Finalmente era finito l’incubo del viaggio. Volare in sé mi era piaciuto tanto, mi sentivo eccitata a guardare fuori dall’oblò, ma il viaggio logisticamente era stato complesso. Io non avevo mai preso neanche un treno, figuriamoci un volo nazionale e poi uno internazionale.

È stata un’esperienza hard-core. C’erano delle differenze culturali tra Italia e Usa?

Noi siamo andati a vivere a Hoboken, a casa di mia suocera. C’erano delle strade molto signorili, come Garden Street dove c’era la nostra abitazione. C’erano altre strade poi meno ben frequentate, un po’ degradate. Al di là di questo la grande differenza culturale tra Italia e Usa era la visione del lavoro. In Italia non c’era la consuetudine che le donne lavorassero. Se lo stipendio dell’uomo bastava per soddisfare le necessità della famiglia la regola era che la donna restasse a casa. A New York invece negli anni Settanta tutte le donne lavoravano a prescindere, per una propria indipendenza. Se non lavoravi ti guardavano male! Bisognava lavorare. Bisognava stare bene economicamente.

Mauro era molto geloso e non voleva che io andassi a lavorare. Io lo prendevo sempre in giro dicendogli: “Tu sei nato nel 1916 come mio padre”. Infatti già quando ero in Italia avevo lasciato il mio lavoro sotto sua richiesta. Nella mia città di origine lavoravo per una nota azienda produttrice di macchine da cucire e insegnavo a utilizzarle. Davo dimostrazioni anche a domicilio.

Anche in America Mauro non voleva che lavorassi. Appena arrivata ero incinta, come ho anticipato, quindi in realtà neanche io sentivo il desiderio di trovarmi un’occupazione. Tra l’altro lui guadagnava 800 dollari a settimana e ti assicuro che all’epoca erano tantissimi. Mauro faceva il manutentore dei container a Port Elisabeth.

Poi durante il parto ho perso il bambino. È stato un momento tragico per me, l’avevo tanto tanto atteso. L’avevo sentito muoversi fino all’ultimo istante, ma quando mi sono svegliata mi sono resa conto che non c’era nessuno a fianco a me. Quando iniziai a chiedere “the baby” l’infermiera mi voltava le spalle senza guardarmi, mi diceva “good” e finiva lì. Avevo capito fin da subito che c’era qualcosa che non andava. Venne poi il medico a spiegare la situazione. Mi dissero che dovevo ringraziare il cielo se fossi ancora viva, perché anche io avevo rischiato di morire durante il parto.

Tornata a casa io ero costantemente in lacrime. Avevo bisogno di distrarmi e dovevo lavorare. Mauro mi fece questa gentile concessione (sorride ndr) e mi permise di lavorare in un’azienda in cui si confezionavano cappotti femminili. Pensa che a Hoboken le attività commerciali facevano già l’orario continuato, quindi alle 17:30 sul corso principale era già tutto chiuso. La sera non camminava anima viva, c’era il deserto, quindi io avevo davvero dovuto cambiare le mie abitudini quotidiane. Lì esisteva solo ed esclusivamente il lavoro. La gente usciva la mattina per andare a lavorare e una volta rientrata a casa non usciva più. La vita era: “casa lavoro, lavoro casa”.

Ho visto emigrati che pur di mettere soldi da parte conducevano una vita sacrificata. Non si concedevano nulla. Per loro anche prendere l’autobus per andare a lavoro era uno spreco. Andavano a piedi pur di non pagare il biglietto.

Quando sentivano che noi eravamo andati a sciare in Pennsylvania o che eravamo stati a New York a teatro, al cinema o a vedere un concerto ci guardavano allibiti, come se avessimo fatto chissà quale peccato mortale. Mauro poi aveva una 124 coupé verde smeraldo…

In ogni caso qualche anno dopo rimasi incinta di Luisa, che nacque lì. Poi decidemmo di tornare.

Come mai siete “Rimpatriati“? Stavate vivendo il vostro “sogno americano”.

Io non mi sarei mossa, avevo la mia vita, mi ero adeguata alle nuove abitudini. Con la nascita della bambina avevo delle giornate piene. Luisa aveva cinque mesi e mezzo quando siamo tornati…

Tornare è stata un’altra decisione presa in breve tempo. Mauro insisteva che dovevamo tornare in Italia, che io sarei partita per prima con la bambina e che lui ci avrebbe raggiunte. “Se tu rimani qui questa decisione non la prenderemo mai, perché la bambina inizierà a crescere e noi non ce la sentiremo più” questo mi diceva. Io ho “subìto” una decisione di mio marito. Parenti e conoscenti avevano dato per scontato che fossi stata io a decidere di tornare a casa, invece il desiderio era di Mauro.

A me è rimasta nostalgia di Hoboken. Avrei voluto tornarci in qualche modo, non definitivamente ma per rivedere quei posti che sono stati la mia casa per quattro anni. Io ho lasciato lì una parte di me. Il mio bambino Pantaleo Ugo è sepolto lì. Se avessi la possibilità andrei, ma fino ad ora non è stato logisticamente possibile.

Ti sei mai pentita di essere tornata?

No. Per me la cosa importante era essere vicina a Mauro e stare bene in famiglia. Certamente il nostro tenore di vita in America era più alto, non c’era paragone tra gli stipendi. Eravamo passati da 800 dollari a settimana a 150.000 lire al mese.

Eravamo però comunque tranquilli, non ci è mai mancato il piatto in tavola, anche perché con i risparmi eravamo riusciti a comprare casa. Ripeto: l’importante per me era stare insieme. Mauro poi non ha mai scaricato ansie in famiglia. Lui era un punto di riferimento, una spalla sicura, mi diceva sempre di non preoccuparmi.

Nel frattempo la nostra famiglia si è allargata. Oggi siamo genitori di tre figlie che hanno poi creato la loro famiglia.

Avete mai pensato che se foste rimasti in America le vostre figlie avrebbero avuto più opportunità?

Sinceramente no non credo di aver privato le mie figlie di qualcosa. Non mi sento questa responsabilità.

Luisa qualche volta ha detto “potevate rimanere lì”, ma credo che oggi le mie figlie ti direbbero che sono contente di essere cresciute qui in Italia.

Valeria de Bari

Rimpatriati è una rubrica dedicata a chi è tornato a casa e a chi vorrebbe tornare ma non ha ancora trovato il coraggio di fare la valigia. La grafica è di Marisa Tammacco.

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