
Conflitto Hamas-Israele: la reazione del mondo della moda
Chi pensa che la moda sia solo sfoggiare le ultime sneakers di Balenciaga o la it-bag del momento, dovrebbe aprire un libro di economia.
Nello scacchiere dei mercati internazionali, la moda ha un peso specifico di oltre tremila miliardi di dollari, innumerevoli dipendenti delle varie filiere, dalla produzione alla distribuzione, dalla creatività agli economisti dei grandi brand. Senza parlare dei fornitori.
Secondo il report de Il Sole 24Ore, nel 2022 l’ industria della moda in Italia è stata da record. Per la prima volta, infatti, ha superato il tetto dei 100 miliardi, raggiungendo quota 107 miliardi, +16% sul 2021.
E questo è solo il lato meramente economico e numerico. Ma quante delle nostre azioni quotidiane, quanta customer experience online e offline sono influenzate da campagne di moda e influencer? Quanti acquisti hanno come driver inconscio l’appartenenza ad una categoria di persone rappresentata da un brand? Io, per esempio, ho sempre sognato di cavalcare con grazia vestita Hermes dalla testa ai piedi, quando a malapena ho i soldi per una passeggiata sul pony.
Questo perché la moda è la società, e viceversa. In questo caso, la moda è anche -tanta, tantissima- economia. In breve, la moda è anche politica.

Come reagisce la moda alla guerra?
Agli inizi della guerra tra Russia e Ucraina, moltissimi brand hanno chiuso punti vendita in Russia e hanno creato dei mini-embarghi sui prodotti di lusso. Un gesto che non ha ovviamente messo fine alla guerra, ma è comunque stato di grande impatto politico.
Anche nel recente conflitto Hamas-Israele la moda ha preso iniziative a tutela dei propri dipendenti: “I negozi di H&M rimarranno chiusi fino a nuovo avviso“, dichiarano dal gruppo svedese, che in Israele ha 24 negozi, gestiti attraverso Mach retail, società della famiglia Horesh che controlla altre attività nel Paese. Stessa sorte per il colosso spagnolo del fast fashion Inditex, che ha chiuso gli store di Zara e Bershka.
Man mano che il conflitto si allarga a macchia d’olio, tutta l’area Middle Easte/North Africa è coinvolta e non c’è più spazio per eventi luxury, champagne e glamour. ll Fashion Trust Arabia, che supporta i designer dell’area MENA, ha annullato la sua sfilata, come riportato da WWD:
I Fashion Trust Arabia Awards sono stati rinviati, con una nuova data non ancora rivelata. L’evento annuale, organizzato dall’omonima organizzazione no-profit, amplifica e collega i designer arabi in tutto il mondo. Tra i partecipanti precedenti: Amina Muaddi, Bella Hadid e Jourdan Dunn.
Le maison donano milioni alle associazioni umanitarie
I più grandi brand del mondo stanno mettendo tutti mano al portafoglio. Tutti si pronunciano a favore della pace, ma a livello economico le società scelgono chiaramente a chi dare il supporto. Chanel donerà 4 milioni di dollari alle associazioni umanitarie che stanno aiutando la popolazione colpita nel sud di Israele.
La stilista ebrea Tory Burch farà una donazione all’Alliance for Middle East Peace (ALLMEP), gruppo non governativo, che conta oltre 100 organizzazioni, impegnato nella pace tra israeliani e palestinesi. Anche PVH, che annovera marchi come Calvin Klein e Tommy Hilfiger, non si schiera con una specifica parte, ma supporta la Croce Rossa con una generosa donazione.
Le stiliste Stella McCartney, Victoria Beckham e l’attrice Gwyneth Paltrow hanno dimostrato sofferenza sia verso gli israeliani che i palestinesi.

Cosa succede ai designer palestinesi e israeliani
Mentre i brand multimilionari spostano per una buona causa, i giovani designer e stilisti dell’area colpita dalla guerra sono chiamati a fare resistenza. Se non militare, almeno artistica e culturale.
L’israeliana Dodo Bar è stata temporaneamente sospesa da Mytheresa, una delle più importanti piattaforme del luxury retail, per poi esserne riammessa. Tutto a causa di un video che secondo il popolo del web era pieno di odio, nonostante l’hashtag #freegazafromhamas. E proprio i commenti online, che come sappiamo sono in grado di spostare consensi alla velocità della luce, chiedono la rimozione del brand palestinese/iracheno Huda Kattan da Sephora. Da Sephora nessuna reazione, per ora.
Moltissimi brand minori stanno comunque testimoniando dai loro profili social la terribile situazione del conflitto, chiedendo la fine del conflitto e la tutela di tutti i cittadini che vivono sotto le bombe.
Micaela Paciotti