
“Sui generis. E tu di che genere sei?” L’intervista a Samuele
Devo andare davanti a un giudice per sentirmi dire che mi chiamo Samuele
Purtroppo Samuele non era a Milano quando gli ho chiesto di intervistarlo, per cui abbiamo trascorso quaranta minuti al telefono, che per me sono sembrate ore. Oggi proverò a raccontarvi la sua storia, una storia sofferta ma ricca di forza, di rivendicazione e di orgoglio.
Una storia che mi ha visto chiudere la telefonata con una commozione e un senso di rabbia verso quella parte del mondo così ingiusta.
Ciao Samuele, parlaci di te
Certo, mi chiamo Samuele, ho 21 anni e frequento giurisprudenza all’Università Bocconi.
Ti andrebbe di raccontarci quando ti sei accorto di essere una persona no binary? C’è stato un fattore scatenante o è una consapevolezza che è maturata nel tempo?
Per me è stato veramente un percorso più corto rispetto ad altre persone. È avvenuto passo dopo passo, non ho mai avuto fretta. Si è tutto rivelato a me senza che io dovessi andare a cercare. Sostanzialmente, nel 2019, quando ho iniziato ad avere degli amici intimi, loro volevano conoscermi più approfonditamente e questo mi ha fatto voler conoscere me stesso. Ho iniziato a tagliare i capelli molto corti per la prima volta e ho iniziato un po’ a esplorare chi ero e cosa volevo essere. E poi è scoppiata la pandemia e ovviamente questo mi ha dato molto tempo per pensare. Nel frattempo avevo una persona molto vicina a me, che stava attraversando un percorso molto simile e quindi ci siamo potute appoggiare l’un l’altra durante questa avventura di scoperta di noi stessi. Già nell’estate 2020 mi definivo no binary. In realtà non ho avuto difficoltà ad accettarlo appena ho capito che esisteva questa “etichetta”, soprattutto perché ero circondato da persone che non l’hanno mai reso un problema. L’unica questione a quel punto rimaneva trovare un nome con cui identificarmi. Sapevo di non voler restare con il mio nome di nascita, che era stato uno dei fattori scatenanti che mi aveva fatto capire che non ero esattamente una donna. Ho esplorato diverse possibilità di nomi e poi la mia amica mi ha consigliato Samuele e non è stata una decisione: l’ho letto, sentito e immediatamente riconosciuto come mio.
Se non sono troppo invadente, stai facendo un percorso di transizione ?
Diciamo più o meno: sono in lista d’attesa presso l’ospedale Niguarda per quanto riguarda il percorso psicologico. Gli ormoni purtroppo non sono una possibilità per me, perché assumo dei farmaci per un disturbo dell’umore. Teoricamente sarebbe possibile ma praticamente rischierei il mio equilibrio e non me la sento.
Puoi spiegare ai nostri lettori come iniziare, in Italia, un percorso di transizione?
Il percorso è lungo e complicato. Diciamo che moltissime persone ora scelgono di fare riferimento a strutture private, soprattutto per la questione dei tempi che si accorciano. Io sono in attesa, ho iniziato a telefonare a novembre 2021, ho fatto la mia prima visita intorno ad aprile 2022 e poi sono finito in lista d’attesa e non mi hanno più contattato.
Quindi per avviare un percorso di transizione è valido soltanto una presa in carico dell’ospedale pubblico? Un percorso psicologico privato non garantirebbe la transizione?
No, non vale. Sono accettabili soltanto i nullaosta ossia la certificazione che viene data alla fine del percorso psicologico presso una struttura pubblica che dura circa sei mesi.
Un percorso semestrale con che frequenza?
Dipende. E non sono sicurissimo ma credo ogni due settimane. Ma si valuta anche in base alla disponibilità dello psicologo.
Posso dire che è una follia tutta questa tempistica?
Sentendo le esperienze, sostanzialmente contando che i tempi sono così lunghi, l’attesa deriva anche dalle visite che occorre fare inizialmente: analisi del sangue, ecografie, cose del genere e poi anche per il percorso psicologico. Con tutti questi tempi, quando una persona arriva davanti a uno psicologo, a questo punto è già molto sicura. Nel mio caso sono due anni che vivo così, a questo punto l’avrei capito se non fosse la vita che fa per me.
Cosa ti preoccupa del percorso di transizione?
Le preoccupazioni sono tante, soprattuttutto l’isolamento sociale. Comunque essere trans significa trovarsi ad essere nella stanza sempre quello diverso. Questo è un sentimento che ogni persona della comunità LGBT conosce. Trovare delle persone che possano capire quello che affronti è difficile. E poi ho paura di dover trovare un lavoro o non solo: il dover andare davanti a un giudice e presenziare ad una sentenza per cambiare il mio nome, onestamente, mi terrorizza.
Il cambio nome è una pratica che si avvia da subito o puoi farla a percorso terminato?
La legge richiede che si facciano sei mesi di terapia psicologica e poi sei mesi di terapia ormonale, per cambiare il nome anagrafico. Però la giurisprudenza ha iniziato a riconoscere anche il cambiamento di nome a chi non ha ancora fatto la terapia ormonale. Soprattutto poi se c’è un motivo sanitario per non proseguire con la terapia ormonale.
Il percorso di transizione in Italia è patologicizzante, c’è un’inferenza degli psichiatri molto pesante sull’esistenza di una persona trans che comunque c’è.
Pesa sentirsi malati, perché alla fine è questo il modo in cui veniamo trattati.
Quali son i pregiudizi su una persona in transizione?
C’è una grande differenza tra l’essere una donna trans e il mio caso (posso essere assimilabile a un trans anche se non è il modo in cui mi identifico), di uomo trans. Sulle donne trans pensano tantissimi pregiudizi, c’è un forte collegamento con la prostituzione, anche insulti appositi. Per le donne trans c’è tutto un mondo di discriminazioni. Invece l’esistenza degli uomini trans è sostanzialmente ignorata. Quindi il massimo che c’è è uno spaesamento quando io mi presento a qualcuno e dico che sono Samuele.
C’è sempre un momento di confusione.
Per motivi lavorativi mi sono trovata a vedere tutta la serie “Mare fuori” e mi sono inca**ata nel vedere il personaggio di una donna trans, ritratta come una prostituta nei vicoli dei rioni di Napoli.
Sì, è un’associazione brutta che esiste. Ma il problema non è solo l’insulto (che sarebbe già abbastanza grave) ma è che le donne trans non riescono a trovare nessun lavoro che non sia la prostituzione. Questa è la parte che fa arrabbiare di più, è proprio una relegazione. Penso invece che ci siano meno stereotipi riversi sugli uomini trans, quindi sì, probabilmente sarebbe facile ma con buone probabilità, un datore di lavoro cercherà di non assumerli. Se io mi presentassi per una proposta di lavoro e ho un curriculum alla pari di quello degli altri, non sceglieranno mai me. Essere in questa situazione mi spinge a cercare di fare sempre più degli altri. Per cercare di meritare il mio posto fisso, nessuno può confutare che mi merito di essere nella mia università.
Samuele tu sei responsabile dei diritti civili dei Giovani Democratici di Milano. Che battaglie state sostenendo?
Sono diventato responsabile da poco. Una battaglia importante per i giovani democratici riguarda la salute mentale: è qualcosa su cui teniamo molto. Adesso ovviamente, sto cercando di prestare molta attenzione alle persone transgender. Questo è anche un motivo per cui sono diventato responsabile. Penso che il mio dovere, avendo questa posizione, sia di cercare di dare il più possibile alla mia comunità cercando di sensibilizzare sul tema, anche se a volte è frustrante o pesante. Se qualcuno mi chiede qualsiasi informazione sull’essere transgender, io rispondo sempre.
Quanta quanta strada c’è da fare ancora in Italia?
Sicuramente tantissima perché discriminare una persona della comunità LGBT è ancora socialmente accettato a un livello che è insostenibile. Il fatto che non siamo riusciti a far passare il ddl ZAN, è un indice sociale della posizione del nostro Paese. Non è soltanto la questione di quei politici che hanno deciso di applaudire. Perché quei politici sono stati votati e se si va a parlare con le persone si capisce che le persone ci credono in quello che dicono quei politici. Manca un livello di consapevolezza. Bisogna portare questi temi nelle scuole, nei luoghi in cui ci si raduna, ci si vive. Passa tutto per la conoscenza. Quando si inizia a conoscere anche l’essere transgender, quando si inizia a vedere che non siamo solo creature a due dimensioni che spaventano i bambini ma siamo delle persone con cui magari hanno anche in comune la passione per una serie tv, un libro, un videogioco scompaiono tutte quelle cose. Siamo come tutti gli altri. Non siamo dei mostri, non vogliamo far male a nessuno.
Ritieni sia quindi la paura dell’ignoto?
Sì, è facile cercare di respingere qualcosa che è diversa da noi e soprattutto perché la comunità LGBT, esistendo, soltanto esistendo, va a diminuire tante delle colonne su cui si basa la nostra società. Perché c’è ancora chi pensa che la famiglia è composta dal padre che lavora e dalla madre che sta in cucina e cresce cinque figli da sola. Tutto questo è una parte della nostra società e infatti è dato per assunto. Ad esempio nessuno chiede mai a una ragazzina: “Ma tu ti vuoi sposare?” ma soltanto: “Quando ti sposi?”. Non voler sposare un uomo ma una donna va a colpire qualcosa su cui la nostra società si basa.
Cosa ti spaventa del governo Meloni?
Mi spaventa che non hanno paura. Non hanno paura di fare niente. Non hanno paura delle conseguenze che potrebbero arrivare dall’Unione Europea. Questa vicenda delle trascrizioni delle coppie omogenitoriali ci mostra quanto rispetto hanno di quei principi che sono alla base anche del nostro Stato, ma soprattutto dell’Unione Europea, di cui noi facciamo parte. Non hanno paura di andare contro gli organi europei.
E questo mi fa sentire come se nessuno ci può difendere.
Qual è l’atto politico che compi ogni giorno?
Il mio atto politico è quando entro in una stanza e conosco delle persone nuove, mi presento come Samuele. In qualsiasi stanza, ovunque sono, per questo che ogni volta esito un po’, ho un po’ paura, non voglio creare una discussione, non voglio far casini, però mi merito di essere chiamato con il nome che ho scelto.
E tu di che genere sei?
Direi non binario!
Vorresti aggiungere qualcosa?
Si, dato che abbiamo citano i GD per la battaglia dei diritti e sulla salute mentale, mi sembra giusto dire che molte persone, la comunità LGBT, soffrono i problemi di salute mentale. La comunità trans è particolarmente toccata dal suicidio, moltissime sono le persone trans che perdono la loro vita per il suicidio. Anch’io sono quasi finito a quel punto e ci tengo solo a dire che la nostra relazione con la salute mentale è sentirsi soli al mondo non ci aiuta. Il bisogno di accettare le persone LGBT come parte di questa comunità deriva dal fatto che ogni anno perdiamo dei ragazzi giovani che potrebbero cambiare il mondo, se solo gliene dessimo la possibilità.
Francesca Sorge